Nel 1477 Caterina Sforza, signora di Imola e di Forlì, lasciò Milano e partì per raggiungere il suo sposo, Girolamo Riario, nipote del Papa: si sa che per le città in cui passò la sposa fu accolta con grandissime feste.
A Roma per celebrare le nozze del nipote di Sisto IV fu indetto nel maggio 1477 uno straordinario banchetto, in cui le vivande si susseguirono copiose e raffinate. La relazione anonima di un cavaliere milanese al seguito di Caterina ci descrive soprattutto i grandiosi apparati per l’ingresso a Roma della Sforza, gli addobbi della cerimonia nuziale, l’identità e gli abiti dei presenti, mentre dal punto di vista alimentare ricorda solo che in tavola sfilarono “due porci salvatichi uno maschio et una femmina cum li porcilini sotto, dui cervi maschio et femina”, serviti da “fauni quali secondo le fictione poetiche erano chiamati dei de li caciaturi, due centauri”; dui caprioli, molti paoni et pavone cum li fioli sotto, fassani et fasane, perdice; vitelli dui, et tucte queste erano cocte non essendo livati fuora de la forma sua, che fu uno stupore a vedere”.
Senza contare la “colacione de confetti”, ossia una sorta di aperitivo a base di alimenti dolci, i servizi del banchetto vero e proprio furono ventidue, tanto che “non si vide mai sì digna cosa, né sì abondante né sì preciosa”. Il banchetto durò 5 ore e si finì di mangiare “a le hore XXII”, ossia, secondo il computo orario del tempo, un paio d’ore prima del tramonto, con sollievo della brigata, così infastidita dalle numerose portate di cibo che, se non fosse stato per il piacere delle rappresentazioni e degli intermezzi, nove convitati su dieci si sarebbero addormentati! L’impianto celebrativo-mitologico del convito diede infatti spazio a scene e rappresentazioni, ossia “intermezzi” recitati, suonati e danzati, rievocanti le gesta degli eroi classici e le caratteristiche degli dei dell’Olimpo.
Ogni cinque servizi entrava nella sala un putto sopra un carro trionfale che precedeva la recita di un episodio della mitologia classica, come, per esempio, la storia della Medusa, Ercole e il Leone Nemeo, Teseo e il Minotauro. A metà convito, sei uomini e sei donne danzarono una moresca, seguita da un “ballo a la fiorentina che gran dilecto dette a li vedenti” e quindi venne rappresentata una scena venatoria con l’intervento di quattro cacciatori, due fauni e due centauri che presentarono a Caterina Sforza varie coppie di animali arrostiti e rivestiti della loro pelle o delle loro piume: i cinghiali, i cervi, i caprioli, i vitelli, i pavoni, i fagiani citati prima, “et tucte queste cose erano cocte non essendo livati fuora de la forma sua che fu uno stupore a vedere”. Si trattò quindi di cibi “travestiti”, ovvero ricostruiti da cotti nelle forme originarie come se fossero stati ancora vivi, secondo una consuetudine molto in voga all’epoca, che testimoniava l’eccezionale abilità manuale e artistica dei cuochi.