La leggenda vuole che la sirena Partenope, avendo scelto come dimora il Golfo di Napoli e allietandolo con i suoi canti, venisse celebrata con un culto suggestivo che prevedeva l’offerta di sette doni: la farina, simbolo di ricchezza; la ricotta, segno di abbondanza; le uova, che richiamano la fertilità e la nascita; il grano bollito nel latte, simbolo di unione del regno animale e del regno vegetale che dà nuova vita; i fiori d’agrumi, profumo della terra campana; le spezie, segno di accoglienza; lo zucchero, per celebrare la dolcezza del canto della sirena. Partenope gradì i doni e li mescolò per creare un dolce. Un’altra leggenda narra che fu invece il mare a creare la pastiera, quando le mogli dei pescatori napoletani come auspicio per il ritorno sulla terraferma dei loro mariti offrirono alle onde sette ceste con altrettanti ingredienti, gli stessi della leggenda della sirena Partenope.
Storicamente, la preparazione di focacce per le celebrazioni del ritorno della primavera nell’area mediterranea si perde nella notte dei tempi: cereali come il grano o il farro abbinati alla ricotta erano gli ingredienti del pane di farro romano, dolce nuziale detto “confarreatio”, ed è certo che le sacerdotesse di Cerere portassero in processione l’uovo, simbolo della vita nascente e poi, con il cristianesimo, della Resurrezione. All’epoca di Costantino si preparavano focacce rituali con il latte e il miele che i catecumeni ricevevano dopo il battesimo, nella notte di Pasqua.
Nel 1632 Giambattista Basile citava la pastiera napoletana (e i casatielli) ne “La Gatta Cenerentola”: “È venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mezzecatorio e che bazzara che se facette. Da dove vennero tante pastiere e casatielle?… Tanto che nce poteva magnare n’asserceto formato”.
L’attuale pastiera è però un dolce ricco ed elaborato, che fa pensare a una nascita aristocratica: per il ripieno occorrono latte, zucchero, ricotta di pecora, chicchi di grano, burro, frutta candita, uova, vaniglia, scorza d’arancia e di limone, acqua di fiori d’arancio e cannella.
La pastiera che conosciamo oggi ebbe origine nel Rinascimento, a Napoli, e come per la maggior parte dei dolci napoletani nei conventi: nel Cinquecento le suore di clausura del monastero di San Gregorio Armeno erano delle vere maestre nella preparazione di profumatissime pastiere, che poi regalavano alle famiglie aristocratiche della città. Leggenda vuole che la regina Maria Teresa d’Asburgo, consorte di Ferdinando II di Borbone, detta per il suo temperamento ombroso “la Regina che non ride mai”, avesse finalmente sorriso quando assaggiò la pastiera. “Per far sorridere mia moglie ci voleva la pastiera, ora dovrò aspettare la prossima Pasqua”, aveva commentato il Re.
Il ricco ripieno della pastiera è racchiuso nella pasta frolla, sormontata da striscioline incrociate: devono essere sette, quattro in un senso e tre nel senso trasversale. La leggenda spiega anche questo particolare, narrando che sia un modo per rappresentare i tre Decumani e i quattro Cardini della città antica greca, cioè per formare la planimetria dell’antica Neapolis. Il “magico” sette ritorna anche nel numero degli ingredienti di questo dolce.