~ Dal Rinascimento curiose e fantasiose ricette per mangiare, per stupire, per diventar belle, per dormire e far dormire, per convertire lo stagno in argento finissimo, e per molto altro…
Una breve e raffinatissima preparazione suggerita da Maestro Martino per una minestra delicata, dal gusto dolce, a base di semi di canapa…
“Piglia la sementa di canipa, et lassala stare a moglio per un dì et una nocte buttando via quelli granelli che stanno sopra l’acqua perché sonno tristi. Et poi habi delle amandole ben mondate, et pistale insieme con la ditta sementa. Et pistate che seranno bene, le distemperarai con l’acqua frescha et con bono brodo di piselli, mettendovi etiamdio del zuccharo fino, et un pocho d’acqua rosa. Et poi farai cocere tutte queste cose per spatio d’una octava d’ora circha, menandola de continuo col cocchiaro“.
Susamielli e mostaccioli sono, con gli struffoli, dolci tipici delle feste natalizie a Napoli. Il fatto che compaiano nel ricettario di un grande cuoco al servizio dei signori di Ferrara, gli Estensi, nel Cinquecento come Cristoforo di Messisbugo non deve stupire: il sangue estense si era fuso con quello aragonese dei discendenti dei re di Napoli fin dagli anni Settanta del Quattrocento, con le nozze tra Ercole I d’Este ed Eleonora, figlia del re di Napoli Ferrante d’Aragona. Ecco le ricette di Messisbugo, tratte dal suo “Libro Novo”:
A fare sosameli perfettissimi numero XXXVI
Togli libra una di farina biancha, e libre due di zuccaro pisto, e ben passato per lo setazzo, et oncia una di cannella fina pista, e due picicotti di pevere pisto, e tre torli d’uova, et uno col chiaro, et uno ottavo di pevere longo, et acqua rosata mescolata con un poco di sale, et con diligena fa la tua pasta un poco duretta, e menala molto bene. Poi habbi la stampa, e fa quello che vuoi stampare. E ponendoli un pocheto di muschio [profumo] seranno migliori. Poi metteli a cuocere nel forno sopra una asse picciola.
A fare mostazzoli di zuccaro
Piglia di cedro confetto tagliato minutamente libre tre, di miele libre cinque, di pevere cinque ottavi, dizaffarno scrupulo uno, di cinnamo tre quarti d’oncia, di muschio tre grani, di farina tanto che basti ad impastare dette robbe. Poi farai i mostazzoli grandi, et piccioli, come a te piacera. Poi li fari cuocere come i pampapati, ma questi si fanno d’once 4 in 6 l’uno, e non più grandi.
Nei grandi banchetti del Quattrocento e del Cinquecento, sedi ideali per manifestare la creatività dei grandi cuochi di corte, come “i nostri” Martino de’ Rossi e Cristoforo da Messisbugo, i pani svolgevano un ruolo che andava al di là della loro funzione alimentare. Spesso serviti come piccoli pani individuali, o da suddividersi a coppie di commensali, assumevano le forme più artistiche, potevano essere argentati o indorati, cioè ricoperti di lamine o di polvere d’oro e d’argento, celebrando gli stemmi e delle imprese delle famiglie che organizzavano o che partecipavano al convito. Tali pani artistici, a foggia quindi di blasoni, oppure di fiori, di foglie, di animali, di diamanti, di corone, potevano essere dolci, come quello della ricetta che segue, preparato con zucchero, uova, latte e profumato con acqua di rose: Messisbugo invita a prepararlo della forma e della dimensione preferite.
Per fare cinquanta pani di latte e zuccaro de once nove l’uno
Fatto che haverai il tuo levaturo [lievito], pigliarai di fiori di farina burattata libre 3.5 e libre 6 di zuccaro ben bianco, e torli d’uova 15 e libre 3 d’acqua rosata e libre 6 di latte fresco e oce 6 di butiro fresco. e impastarai il tuo pane, avvertirai bene che l’acqua o latte, e farai anchora che i tuorli d’uova sian caldetti, et li scalderai ponendoli nell’acqua calda, e gli porrai il conveniente sale e farai la pasta, sì che on si né dura né tenera, ma più tosto che habbia del saldetto, e poi farai il tuo pane, e lo lasciarai ben levare, e lo cuocerai con grande ordine, sì che non pigli troppo fuoco, ma che al tuo giuditio stia bene, e questo pane è bello a farlo tondo, che intorto, o in pinzoni, sia dopoi più grande, o più picciolo, come tu vorrai: ti governerai adunque secondo questo modo, che è provato.
Maestro Martino nei suoi ricettari non dimentica parecchie minestre invernali, molto semplici e basate su ortaggi “poveri” e comuni come le lattughe, le rape, i finocchi. La relativa semplicità e “leggerezza”, oltre all’uso parsimonioso delle spezie, almeno per i sostenuti gusti del tempo, fanno intravvedere il tocco innovativo del cuoco di Blenio nelle sue ricette.
Minestra de lactuche che para zucche
“Piglia quel di sotto più biancho di la lattucha, cioè quello di mezo, et fallo cocere como le zucche (gli fa’ trare solamente un boglio in acqua, et cacciale fore) e poi con ova et con agresto”.
Minestra di rape
“Netta le rape et tagliale in pezzi grossi, et cocile bene in un bon brodo di carne. Dapoi le passa per un cocchiaro grande forato, overo pistale, et dapoi remittila a bollire in bon brodo grasso con un pocha di carne salata, et di pepe, et di zafrano”.
Minestra di finocchi
“Li finocchi si cocono como li chavoli, excepto che vogliono essere più menuti et più cotti con un pocho di pepe et carne salata, overo olio. Mittili in l’acqua quando bolle. Et quando seranno circha mezo cotti butta via tutta quella acqua et habi di bon lardo battuto in bona et competente quantità, et mettilo ne li ditti finocchi così sciutti, voltandoli ben col cocchiaro. Poi pigliarai di bono brodo grasso, pepe et carne salata et in quello li metterai al focho a bollire per piccholo spatio di tempo”.
Maestro Cristoforo da Messisbugo nella ricetta seguente, presente sul suo “Libro Novo” del 1557, suggerisce una ricetta per una pasta da dolce molto simile agli struffoli napoletani (“truffolo”), da preparare in pezzi “grandi come dadi”. Con questa sorta di dolci mattoncini, fritti prima in padella e poi rifritti una volta cosparsi di miele, il cuoco invita a costruire, a seconda della propria creatività, torri o castelli o altro.
È noto infatti che nei banchetti si usasse portare in tavola, soprattutto prima dei dolci, grandi costruzioni replicanti architetture della città che ospitava il convito o di altri luoghi particolarmente legati alla storia dei signori presenti: questa portata di solito sollevava meraviglia nei commensali e costituiva uno degli “intermezzi” con cui si allietavano i pranzi più sontuosi. Torri, castelli, cattedrali, fontane e giardini dell’Eden fatti di pasta dolce o biscotti venivano a volte dorati o argentati, riempiti di fiori o di uccelli vivi (che, poi liberati, volavano per la sala dove si teneva il banchetto e allietavano ulteriormente i presenti), oppure accompagnati da musiche o dalla recitazione di versi, persino da giochi d’acqua e di vino!
Truffolo per far Torre, Castelli e altre cose
Prima pigliarai fiore di farina, et la impastarai con uova battute, zuccaro et acqua rosa, et un pochetto di butiro [burro], secondo la quantità di che le vorrai fare, et con un poco di zaffarano. E impastata che l’averai, ne fari pezzi grandi come dadi e li lasciarai un buon pezzo fatti, che si sughino bene; dapoi li frigerai in grasso buono o butiro, o bon olio, e poi che seronno secchi, li rifrigerai in miele ben chiarificato e ben colato; e poi che serano refritti nel miele, ne fabricherai un Castello, o Torre, o altra cosa che ti parerà, tenendoli sbroffati [spruzzati] sempre d’acquarose, zuccaro e cannella.
Maestro Martino suggerisce una ricetta semplice di pane bollito nel brodo, un “pancotto” arricchito con uova e formaggio grattugiato. Non poteva mancare il tocco di zafferano, per dare un bel colore giallo dorato alla preparazione.
Fa’ bollire il pane grattugiato per un quinto de hora in brodo di carne. Et togli un pocho di caso* grattugiato, et sbattilo con ova, et lassa alquanto refredare il pane boglito. Et dapoi gettavi le dicte ova et caso, et mescola molto inseme. Et tal menestra vole essere gialla di zafrano**, et alquanto spessa.
Come già visto per la salsa “fior de persico”, anche per questo “sapore” giallo Maestro Martino richiama un fiore dello stesso colore: la ginestra.
Le salse, o “sapori” o “savori”, nel Trecento e nel Quattrocento accompagnavano immancabilmente le carni ed erano impiegate anche a scopo decorativo, perché davano una nota di colore al banchetto. C’erano salse gialle, verdi, rosate, di varie gradazioni di rosso e di violetto, brune e nere… Nel caso specifico della salsa “fior di ginestra”, il colore giallo è ottenuto con zafferano e rossi d’uova.
“Piglia de le amandole, et zafrano*, et rosci d’ova**, et che le amandole siano monde et piste como vogliono essere, et distemperale*** et passale como bono agresto, agiongendovi del zenzevero**** pesto“.
I “sapori” o “savori” erano le salse, nella cucina tre-quattrocentesca immancabile accompagnamento a ogni tipo di carne, soprattutto nell’area padana. Qui Maestro Martino propone una salsa “fior de persico”, ossia “fiore di pesco”, evidentemente per il suo colore rosato. Oltre alle mandorle, alle spezie e all’agresto, ci sono melograni e vino rosso, per conferire sapore e colore alla salsa.
“Habi l’amandole monde bianche, et ben peste con una mollicha di pane biancho, un pocho di zenzevero* et di cannella, et de un pocho de agresto et de vino roscio** et sucho de pomi granati***. Poi distemperarai**** et passarai questa compositione con il vino roscio, e la farai dolce et bruscha secundo che ti piace…”
Ecco un altro “sapore” (salsa) colorato di cui Maestro Martino ci offre la ricetta. In accompagnamento alle carni, esistevano molte salse colorate, gradite soprattutto nell’area lombarda e padana. Tra i colori, le gradazioni del rosso, del granata e del violetto ricorrevano di frequente e potevano essere diverse, ottenute soprattutto attraverso frutta (colorante) mischiata a mollica di pane o a mandorle pestate.
Nel caso specifico della salsa all’uva, il gusto doveva essere asprigno (più o meno, secondo i gusti, ottenuto attraverso le variabili quantità di agresto) e un po’ piccante (zenzero e spezie).
“Habi de la bona uva negra et rompila molto bene in un vaso, rompendo con essa un pane o mezo secundo la quantità che voi fare, et mettevi un pocho di bono agresto, overo aceto, perché l’uva non sia tanto dolce. Et queste cose farai bollire al focho per spatio di meza hora, agiongendovi de la cannella, et zenzevero*, et altre bone spetiarie**“.
Anche per questa salsa, che cromaticamente doveva essere di un rosso scuro, la base è costituita da more, mandorle pestate e mollica di pane bianco. La delicatezza del cuoco si ravvisa laddove consiglia di essere delicati nel manipolarla, per non rompere i piccoli grani presenti nella frutta.
Le salse rosse o brune, e questa in particolare, erano indicate per le carni rosse e la selvaggina.
“Habi dell’amandole monde et peste bene con un pocho di mollicha di pane biancho. Et piglia li ditti moroni*, et macina con diligentia ogni cosa inseme. Et non gli dare colpo né pestare, per non rompere quelli granelli piccini che hanno dentro; poi gli mecti de la cannella, del zenzevero** et un pocho di noce moscata. Et ogni cosa passa per la stamegnia***“.
* “moroni”: more
** “zenzevero”: zenzero
*** “stamegnia”: stamegna, sorta di colino di tela fatto di stame