~ Dal Rinascimento curiose e fantasiose ricette per mangiare, per stupire, per diventar belle, per dormire e far dormire, per convertire lo stagno in argento finissimo, e per molto altro…
Maestro Martino suggerisce una preparazione con le uova semplicissima (due soli ingredienti: olio e uova), per la quale è però richiesta una certa abilità. In questo si avverte l’originalità e la raffinatezza del cuoco comasco.
Si tratta infatti di “frittellare” delle uova sgusciate e gettate in pentola nell’olio caldo, rivoltandole continuamente e rendendole “rotonde” più che sia possibile, ovvero creando delle palle di albume rappreso e ben cotto, a rivestire tuorli che, all’interno, si dovrà cercare di far restare morbidi…
“Habi l’ova fresche et rompile ad uno ad uno in la patella che l’olio si caldissimo, et subito che le mettirai in l’olio le restringerai inseme con la paletta o col cocchiaro, facendole tonde quanto più sia possibile, et rivolterale spesso cocendole, in modo che di fora siano alquanto colorite, et di dentro non siano dure né troppo cotte, ma più presto morbide et tenere…“
Nel mantovano, nel modenese e nel bolognese il tipico dolce della tradizione di Pasqua è la “torta tagliolina”, detta anche “ricciolina”, “tajadlina” o torta di tagliatelle. Su una base di pasta frolla morbida, farcita di mandorle, cedri canditi, zucchero o miele e liquore, si mette una copertura di vere e proprie tagliatelline fresche di pasta sfoglia all’uovo, che in cottura al forno diventa particolarmente croccante. Questo dolce oggi si serve abitualmente con vini dolci o liquore alle mandorle.
Le origini della “torta tagliolina” sono dibattute e contese tra Mantova, Modena e Bologna. C’è chi le collega al Trecento e chi alla nascita delle tagliatelle, formato di pasta che secondo una famosa leggenda sarebbe stato “inventato” nel 1502 dai cuochi estensi o da Maestro Zefirano, cuoco del signore di Bologna Giovanni II Bentivoglio, per riprodurre i capelli biondi, lunghi e inanellati, di Lucrezia Borgia (che i maligni dicevano tinti, a forza di erbe e di bagni di sole…). Lucrezia era stata ospite della città di Bologna mentre si recava a sposare il duca di Ferrara. Una torta molto vicina a quella di tagliatelle compare ne “L’arte del ben cucinare del cuoco ducale Bartolomeo Stefani” del 1662, libro che influenzò persino i grandi cuochi della corte del Re Sole: è citata nella lista delle vivande servite per uno dei banchetti che si tennero a Mantova in onore della Regina Cristina di Svezia, ospite dei Gonzaga.
A Mantova questo dolce si presenta di solito senza il guscio di frolla, come un nido di pasta, croccante nella consistenza e non facilmente affettabile con il coltello. Viene spesso accompagnato da vino o grappa.
Antica ricetta della provincia lucchese e della Garfagnana in particolare, la “pasimata” era, ed è, il frutto di una lunga preparazione che occupa i tre giorni che precedevano la Pasqua: veniva portata in chiesa il Sabato Santo per la tradizionale benedizione, assieme alle uova. Si trattava di un “pane rituale“, che, benedetto e diviso in spicchi, era distribuito all’interno della comunità, in segno di fratellanza e condivisione.
La ricetta della “pasimata” è antica, riconducibile a quella dei pani medievali delle feste, e della loro lenta preparazione, vista come un vero e proprio rituale. Gli ingredienti di base sono semplici: farina, uova, lievito, latte, aromi naturali come i semi di anice o finocchio, e tanto tempo, necessario per le varie fasi di lavorazione e delle lievitazioni a cui l’impasto è sottoposto. Nella sua versione originale la “pasimata” era un normale pane, non dolce, che con il trascorrere del tempo è stato ingentilito dalla presenza dell’uvetta, dello zucchero, del burro o dello strutto. Anticamente tra gli ingredienti c’era lo zafferano, per cui veniva chiamata anche “pangiallo con finocchio” (o con anice), o “pane inzaffaronato”. La riuscita di questo dolce non è scontata, perché strettamente dipendente da minime variazioni climatiche, persino da correnti d’aria o abbassamenti di temperatura durante la sua preparazione. Anche dopo la cottura, nella fase di raffreddamento, la “pasimata” può afflosciarsi e presentarsi quindi in una forma poco accattivante, pur conservando tutta la bontà del suo impasto. L’aspetto della “pasimata” può variare dalla forma di panino a quella di una sorta di panettone (quest’ultima soprattutto nelle località appenniniche).
In Alta Garfagnana viene chiamata “fogaccia pasquale”, a Piazza al Serchio“crescenta”, a Barga “schiaccia”, anche se il termine “pasimata” viene riconosciuto da tutti in Toscana; in diverse varianti è presente anche nelle provincia di Pisa e sul litorale tirrenico. Spesso viene abbinata a un bicchierino di Vinsanto. L’origine del termine “pasimata” è incerta: potrebbe derivare da “passamatum”, cioè dal greco “paxiadi”(“pane cotto sotto la cenere”) e quindi dal turco “peksimet” (pane dolce con zafferano cotto al forno), o addirittura, vista la sua preparazione pasquale, da “passio”, con riferimento alla Passione di Cristo.
Una delle menzioni originali della “pasimata” risale al 1621 (anche se è probabile che il dolce fosse diffuso anche molto tempo prima), viene dall’Archivio Arcivescovile di Lucca e ricorda come la Confraternita del Santissimo Sacramento di Castiglione Garfagnana ne stabilisse la distribuzione a tutti i confratelli: “La compagnia ha di entrata staiuole 9 di grano, con obligo di distribuire 6 in tanto pane il Giovedi Santo, dandone uno per famiglia: et le altre 3 le consuma in dare pasimata et fare altro a loro beneplacito”. Un documento parrocchiale di San Jacopo a Gallicano che fa riferimento all’elargizione di “pasimata ai poveri” risale ancora a prima, al 1603.
Curiosità: molto simile alla “pasimata” garfagnina è la “paska” ucraina.
“Ramerino” è un termine toscano che già dal Trecento identificava il “rosmarino”: il “pan di ramerino” era preparato unendo le foglie di un paio di ramoscelli di rosmarino a farina, latte, olio, sale e uvette (“zibibbo”). Nato come pane di devozione medievale, con il tempo si è arricchito di zucchero.
Era legato più che alla Pasqua al periodo immediatamente antecedente a questa festività, il Giovedì Santo. Oggi lo si trova anche in altri periodi dell’anno, ma per i fiorentini rimane una tradizione mangiarlo il Giovedì Santo. In tempi non lontani era venduto nei forni fiorentini e sulle bancarelle degli ambulanti (al grido “con l’olio!”) davanti alle chiese: i parroci all’alba del Giovedì Santo si recavano nei panifici a benedirne l’impasto prima della cottura e le donne che li acquistavano li portavano a farli benedire in chiesa. I fornai, come spesso accadeva per i “pani rituali” delle feste di derivazione medievale, incidevano sui panini una croce come connotazione religiosa (e anche per migliorarne la lievitazione).
Nel Medioevo si riteneva che il rosmarino avesse proprietà analoghe all’incenso, cioè allontanasse gli spiriti malvagi: utilizzato fin dai tempi più antichi durante i riti sacri ed esoterici, era anche una sorta di amuleto contro la sfortuna e le malattie. L’uva e il grano, del resto, erano da sempre considerati simboli di vita.
“Decretiamo che tutti i confezionatori di zonclada devono farle ben cotte e del peso sempre di una libra e non devono venderle oltre sei denari l’una. E se questa prescrizione non viene rispettata, che si paghi al Comune cinque soldi denari piccoli per ciascuna zonclada. Non si ammette né si deve accettare di togliere dal latte, con il quale sono confezionate le stesse zonclade, la parte grassa per fare questa panna o il burro, nonché diventano meno buone e piuttosto insipide togliendo da esse il detto grasso, e si paghi venti soldi denari” – Ordinanza trevigiana del 1313
Oggi sulle tavole nel periodo di Pasqua, preparata con formaggio ottenuto da latte intero (non privato della panna) e arricchito di frutta candita, frutta secca e cannella, la “zonclada” nel Medioevo divenne una sorta di emblema della città di Treviso e della sua cucina più ricca: gli amministratori comunali la offrivano tradizionalmente alle autorità, agli ambasciatori e ai notabili in visita. Nel 1317 si registrò il dono di alcune “zonclade” anche agli ambasciatori a Treviso di Cangrande Della Scala.
Un fenomeno curioso fu la scomparsa di questo dolce nei secoli successivi al Tre-Quattrocento, e il suo ritorno in auge negli Anni Venti del secolo scorso, quando riemerse dallo studio di documenti manoscritti, conservati nel “Capitolato del Duomo” di Treviso e negli “Statuti della città di Treviso” del 1313. Il canonico e arcidiacono Angelo Marchesan ne diede ampio resoconto nella sua opera storica “Treviso Medioevale”.
Il nome del dolce sembra derivare da “giuncata” (in trevigiano “zonchida”), formaggio fresco molle di latte ovino, caprino o vaccino che veniva messo in cestelli di giunco. O forse da verbi dialettali come “zoncar” (“mozzare, troncare”), nel senso di tritare, e “zontar” (“aggiungere”), cioè mescolare insieme vari ingredienti tritati. O ancora da “ganzega” o “zanzega” (“far baldoria, stare allegri”), espressione dialettale riferita ai festeggiamenti dei muratori giunti al tetto nella costruzione di una casa.
La “zonclada” non fu mai un dolce popolare, ma una torta delle grandi occasioni, preparata con ingredienti “di lusso”. Si contendevano la sua preparazione le Corporazioni dei “casolarioles” (formaggiari), dei “pistores” (fornai) e dei “pistores dulciarii” (pasticceri). Negli Anni Settanta del secolo scorso il gastronomo trevigiano Giuseppe Maffioli ritenne, a seguito di accurate ricerche, che l’antica ricetta prescrivesse l’impiego di formaggio fresco e stagionato (10 caciottine fresche e del formaggio grasso grattugiato), 40 uova, 40 bicchieri di latte. La rivide però in chiave moderna, prevedendo un guscio di pastafrolla ripieno di ricotta, zucchero, uvette, canditi, cannella. Le versioni più ricche potevano comprendere frutta secca come noci o mandorle o pinoli, fichi secchi, cioccolato, rum.
* Traduzione di Angelo Marchesan in Treviso Medioevale (Treviso, 1923)
Gennaio era rappresentato anticamente da Giano bifronte seduto a una tavola ben fornita, servito da due domestici che forse simboleggiavano la fine e l’inizio dell’anno. L’evoluzione della raffigurazione di Giano fu la scena, tipica del mese di gennaio nei Calendari medievali, dell’omaggio al signore seduto davanti a una tavola imbandita, vestito con un sontuoso abito, con il capo coperto da un cappuccio o da un berretto e con alle spalle un caminetto acceso. In primo piano potevano comparire personaggi legati alla “liturgia” dei banchetti signorili e agli uffici di corte quali il il coppiere, il panettiere, lo scalco o un cameriere, mentre sotto la tavola a volte si aggirava un cagnolino, in cerca di avanzi. Più era sontuoso il Calendario e il codice in cui era inserito, più ricca e affollata era la scena, che nei Calendari minori si risolveva nel signore a tavola servito da un valletto. Non mancavano comunque le raffigurazioni del mese con paesaggi innevati e qualche contadino intento ai pochi lavori dei campi del periodo (vangatura e concimazione).
Emblematica è la raffigurazione del mese di gennaio de Les Très Riches Heures du Duc de Berry, che rappresenta l’omaggio al signore con la miniatura più grande di tutto il Calendario. In essa il duca, vestito con una pesante palandrana azzurra e con il capo coperto da un berretto di pelliccia, siede vicino a un prelato, con alle spalle un caminetto ornato da colonne. In primo piano alcuni addetti al servizio a tavola presentano cibi e bevande, mentre un ciambellano invita gli astanti a presentarsi al duca, cosa alla quale fanno riferimento le parole “approche + approche” dipinte in caratteri gotici al centro della rappresentazione. In primo piano si vede anche un levriero del duca (bianco, quale era il colore della nobiltà), nutrito da un servitore. La tavola presenta un ricco vasellame dorato, come una grande saliera a forma di nave; molto altro vasellame è esposto su una credenza a sinistra della scena. Sopra il caminetto, su una specie di baldacchino rosso, si nota lo stemma del Duca di Berry, costituito da gigli d’oro; altri emblemi del casato, piccoli orsi e cigni feriti, sono visibili sul baldacchino e ai bordi. Le pareti del salone sono ornate da affreschi con episodi della guerra di Troia, i cui numerosi personaggi finiscono per confondersi con quelli realmente presenti attorno alla tavola del duca…
La “Galette des Rois“, cioè la “Torta dei Re”, è una tipica pasta sfoglia francese che a Parigi ha una crosta burrosa ed è farcito con una ricca crema, la frangipane, preparata con farina di mandorle, uova e zucchero, mentre in Provenza è un dolce soffice lievitato ripieno di frutta candita chiamato “Gâteau des Rois”: entrambi celebrano la festa dell’Epifania.
Vera istituzione della pasticceria francese fin dal Medioevo, la tradizione vuole che un portafortuna (originariamente una fava, in seguito una monetina, o una statuina del presepe di porcellana) venga sepolto nella crema di mandorle prima che lo strato superiore di pasta sigilli la torta, e sia cotto nella “galette”; chi ha la fortuna di trovarlo nella sua fetta di dolce, viene incoronato “re” per quel giorno e gli viene concesso l’onore di indossare la corona d’oro. Infatti oggi le “galettes” sono sempre vendute con una corona d’oro di cartone…e l’usanza dell’elezione di un “re” giornaliero tradisce origine pagane, risalenti ai romani Saturnali, sette giorni di festività durante i quali i padroni diventavano schiavi e gli schiavi padroni; chi veniva eletto “princeps” era incoronato sovrano per un giorno e nell’arco di quelle ore vedeva i suoi desideri esauditi da tutti.
Rotonda e dorata come il sole, spesso accompagnata da arance e mandarini, che richiamano a loro volta per colore e aspetto l’immagine solare, questa torta celebrava anche simbolicamente l’inizio di un nuovo ciclo del Sole, cominciato con il Solstizio d’inverno.
La tradizione della “Galette” francese si ritrova nella Svizzera tedesca e in Germania, dove all’Epifania si celebrano i Re Magi (“DreiKönig”), una festa considerata adatta a suonare, cantare e chiedere l’elemosina. In molti paesi si svolgono sfilate e si prepara un pane dolce soffice, dedicato ai Magi, che contiene un fagiolo o una fava o una figurina di re. La stessa tradizione contempla dolci diversi: nei paesi di lingua tedesca c’è il “Dreikönigskuchen”, nei paesi di lingua spagnola il “Roscón de Reyes”, in quelli anglofoni il “King cake”.
Il pudding, preparazione di farina e di altri ingredienti variabili a seconda dei tempi e dei luoghi, nella sua versione dolce in Inghilterra simboleggia le feste di Natale: è il “Christmas pudding”, assimilabile a un budino, mentre il pudding salato è un pasticcio di carne. Proprio la sua versione salata di “pasticcio” ne rivela le origini medievali, e precisamente trecentesche, collegate al “porridge” di carne bollita di manzo e montone mescolata a spezie, uva passa, prugne secche e vino detto “frumentary” e preparato attorno a Natale. Dal Cinquecento, con zucchero e frutta secca disponibili a un prezzo accessibile, il pudding passò dal salato al dolce. Nella ricetta vennero aggiunti ingredienti come uova, pane grattato, zucchero, canditi, birra, rum o brandy che ne garantivano la conservabilità. Il pudding divenne il dolce natalizio attorno al 1650, ma nel 1664 i puritani di Cromwell tentarono di proibirlo, in quanto “peccaminosamente ricco” e “inadatto a persone timorate di Dio”. Nel 1714, re Giorgio I lo ristabilì come parte del pranzo natalizio, di cui divenne il simbolo. In epoca vittoriana fu così popolare che Charles Dickens lo citò nel suo “Canto di Natale”.
Il “frumentary” medievale era preparato la venticinquesima domenica dopo la festa della Santissima Trinità (che cadeva tra maggio e giugno). Oggi il pudding viene preparato cinque settimane prima di Natale, durante o dopo l’ultima domenica prima dell’Avvento. Secondo la tradizione, dovrebbe contenere 13 ingredienti (numero corrispondente a Gesù più i 12 Apostoli) ed essere mescolato, esprimendo un desiderio, da ogni membro della famiglia per 3 volte, da sinistra verso destra, cioè da est verso ovest, per onorare il viaggio dei Magi. Tradizione vuole che si aggiunga una moneta d’argento nell’impasto del dolce: chi la trova nella sua fetta di pudding, avrà un anno fortunato. Anche questa usanza risale al Medioevo, quando, con lo stesso intento, alla miscela del budino salato venivano aggiunti diversi piccoli oggetti, “poveri” come piselli secchi, ossicini di pollo, ditali e bottoni (forieri di nubilato nell’anno in arrivo) o più “ricchi”, come una coroncina o un anello d’argento (quest’ultimo presagio di matrimonio entro un anno). Avvolto in un telo e lasciato cuocere al vapore o a bagnomaria per alcune ore, il pudding oggi può poi essere glassato e decorato con foglie e bacche di agrifoglio. Non contiene quasi più le prugne secche, ma generalmente altra frutta, come le mele cotogne, i fichi secchi, le ciliegie candite: continua ad essere chiamato “plum pudding” perché le prugne secche erano così popolari in Inghilterra che tutti i prodotti che contenevano frutta secca venivano chiamati “alle prugne”…
Ha un ingrediente particolare questa “torta di cialdoni” di Cristoforo da Messisbugo citata nel suo “Libro novo” del 1549: la “sapa”, detta anche “saba” o “sabba”, un mosto cotto e concentrato per ebollizione, molto dolce, dall’origine remota. Descritto già da Plinio nel “Naturalis historia” e da Columella nel “De re rustica”, questo mosto era ben conosciuto dai contadini, ma veniva impiegato anche nelle cucine nobili, come alla corte estense. In zona Ludovico Ariosto citava la “sapa” nelle sue “Satire”, consigliandola per dare sapore alle rape…
“Piglia zaldoni cento vinticinque, rompeli, e poneli amoglio nella sabba *, et uova sei ben battute, e poi passa ogni cosa per la stamegna, et piglia libra una di formaggio duro buono grattato, et oncie nove di zuccaro, et oncia una di cannella fina pista **, et un terzo di pevere *** pisto, et libra meza di butiro **** fresco, et incorpora ogni cosa insieme, et fatto il battuto empi le tue sfoglie, et fatta la torta, li porrai oncie quattro di butiro disfatto sopra, e la porrai a cuocere, e quando sarà quasi cotta li darai oncie tre di zuccaro, et poi li darai un’altra calda fino a tanto che sarà cotta”.
La libbra era una misura equivalente a circa 300 grammi, l’oncia la sua decima parte (30 grammi circa)
* sabba: sapa, mosto cotto e concentrato per ebollizione
Cristoforo da Messisbugo, nel suo “Libro novo” (“nel qual s’insegna il modo d’ordinar banchetti… Et a far d’ogni sorte di vivande”), pubblicato nel 1549, ci offre la ricetta di una torta d’uva fatta con il “moscatello”. Si trattava di un vitigno nel Quattro-Cinquecento diffuso soprattutto nella Valle del Tevere e probabilmente derivante dal Moscato, di sapore dolcissimo e aromatico, sia nella varietà bianca, la più comune, che in quella nera. Cristoforo, dando per scontato che la torta sia composta di pasta sfoglia ripiena, e avendo già dato la ricetta per le sfoglie, si concentra sulla descrizione del ripieno d’uva…
“Piglia il moscatello ben maturo, e mondalo dalle graspe, e mettilo in una catinella, e piglia molleca di pane, e falli levare un boglio*, et passa ogni cosa per la stamegna **. Poi piglia libra meza di formaggio duro gratato, oncie sei di zuccaro e libra meza di butiro *** fresco, et oncia una di cannella, et di pevere **** un terzo, et uova sei, et incorpora bene ogni cosa insieme, e fa’ le tue sfoglie, et empile. Poi li porrai sopra oncie quattro di butiro e la porrai a cuocere e quando sarà quasi cotta li spargerai disopra oncie tre o quattro di zuccaro, e la finirai di cuocere in vino nero…”
La libbra era una misura equivalente a circa 300 grammi, l’oncia la sua decima parte (30 grammi circa)