Si sa che alla corte sforzesca ebbe una predilezione per il pavone e per la sua scenografica presentazione a tavola Bianca Maria Visconti, che fu anche un’allevatrice di pollame e che fece rientrare nell’oculata amministrazione del suo Stato lo sviluppo di questa attività. Oltre ai pavoni, la signora di Milano allevava con successo le “galline d’India”, ossia le faraone.
Il “giuramento sul pavone” (talvolta sul fagiano) era un momento emblematico del banchetto medievale, che accresceva il simbolismo del volatile e della sua presentazione, diventando occasionalmente il motivo di un gioco cortese. Era ben noto alla corte sforzesca il “Voeux du Paon”, racconto francese del Trecento tutto imbastito sulla trama di un pavone ucciso da un cavaliere, tra l’esecrazione generale, e tuttavia prontamente arrostito e, con accompagnamento musicale, esibito a turno ai convitati perché dinnanzi ad esso formulassero solenni promesse di riparazione. Così avveniva ancora in pieno Quattrocento: durante i banchetti ufficiali, non era raro assistere alla formulazione di giuramenti solenni davanti al pavone portato in tavola con ogni onore.
Il “pavone vestito”, ossia cotto e poi reinserito nella sue piume, nei banchetti fungeva da intermezzo montato, prima ancora che da pietanza. Ben dettagliata è la ricetta del “pavone vestito” tramandataci da Maestro Martino. Il volatile doveva essere preparato con abilità, previa scuoiatura, che si praticava a partire da un’incisione sotto il becco, per tutto l’addome fino al codrione, e poi “scortichando gentilmente che no guastino la pelle”. Il celebre cuoco lombardo raccomandava: “…e quando haverai scorticato el corpo, riversa la pelle del collo per infino appresso al capo, poi taglia el dicto capo he resti attachato alla pelle del collo; e similmente fa che le gambe rimanghino attachate alla pelle delle coscie”. La carcassa, spellata ed eviscerata, si farciva con “buone cose” e spezie, e il petto si piccava di chiodi di garofano; poi si poneva il pavone sullo spiedo, stendendogli il collo e avvolgendolo in una pezza da tenere sempre umida, “acciocchè ‘l fuocho nol sechi troppo”; a cottura ultimata, l’uccello si rivestiva con la sua pelle e le sue piume, abbondantemente spolverate all’interno di spezie. “Per più magnificentia”, sotto la pelle si poteva applicare uno strato di oro in foglia.
Una volta pronto, il pavone veniva servito “in piedi”, ossia in posizione verticale, rizzato sopra un piedistallo, con l’aiuto di un’incastellatura di filo di ferro: si aveva cura di porre le penne della coda aperte a ruota. Pavoni e fagiani rientravano spesso nel gioco delle vivande servite ai banchetti come vivi, con candele e sostanze odorose nel becco, che venivano fatte bruciare per diffondere profumi in tutta la sala ove si svolgeva il convivio.
A Milano si ricorreva spesso al “pavone camuffato”, nel senso che per non affliggere i convitati con le sue carni coriacee, pur preservando la scenografia tradizionale che comportava la presenza del nobile uccello, si cucinava qualche altro volatile più appetibile, come ad esempio la più tenera e saporita oca, e si rivestiva questa carne con il piumaggio del pavone!
La sua carne, considerata incorruttibile, era comunque associata alla figura di Giunone, divinità del matrimonio e del parto ed altra metafora comune nei banchetti nuziali. Non a caso un pavone faceva bella mostra di sé, in primissimo piano, nella miniatura a piena pagina, oggi conservata al Museo Diocesano di Cremona, che rappresentava il momento dello scambio degli anelli durante le nozze tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, avvenuto appunto a Cremona, città dotale della sposa, nel 1441. Il simbolo cristologico di immortalità sarebbe stato lì utilizzato per auspicare per quel matrimonio durata, fertilità e fedeltà: la storia ci dice che i primi due obiettivi furono raggiunti, mentre la fedeltà non fu mai una prerogativa di Francesco Sforza…